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tutto sembra senza limite

"Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo num...

mercoledì 29 gennaio 2014

io vivo (R. Daumal)

Sono morto perché non ho alcun desiderio,
Non ho alcun desiderio perché penso che possiedo,
Penso che possiedo perché non cerco di dare;
Cercando di dare, vedo che non ho nulla,
Visto che non ho nulla, cerco di darmi,
Cercando di dare me stesso, vedo che non sono nulla,
Vedendo che non sono nulla, io voglio diventare,
Desiderando di diventare, io vivo.

René Daumal

martedì 28 gennaio 2014

cavalcando aquiloni

Ho imparato a sognare,
che non ero bambino
che non ero neanche un’ età
quando un giorno di scuola
mi durava una vita
e il mio mondo finiva un po là
tra quel prete noioso
che ci dava da fare
il pallone che andava
come fosse a motore
c’è chi era incapace a sognare
e chi sognava già
Ho imparato a sognare
e ho iniziato a sperare
che chi ha d’avere avrà
ho imparato a sognare
quando un sogno è un cannone,
che se sogni
ne ammazzi metà
quando inizi a capire
che sei solo e in mutande
quando inizi a capire
che tutto è più grande
c’è chi era incapace a sognare
e chi sognava già
Tra una botta che prendo
e una botta che dò
tra un amico che perdo
e un amico che avrò
e se cado una volta
una volta cadrò
e da terra, da lì m’alzerò
C’è che ormai che ho imparato a sognare non smetterò
Ho imparato a sognare,
quando inizi a scoprire
che ogni sogno
ti porta più in là
cavalcando aquiloni,
oltre muri e confini
ho imparato a sognare da là
quando tutte le scuse,
per giocare son buone
quando tutta la vita
è una bella canzone
c’è chi era incapace a sognare
e chi sognava già
Fra una botta che prendo
e una botta che dò
tra un amico che perdo
e un amico che avrò
e se cado una volta
una volta cadrò
e da terra, da lì mi alzerò

C’è che ormai che ho imparato a sognare non smetterò



sabato 25 gennaio 2014

leggerezza

Sono sempre stato affascinato dal fatto che il più pesante dell'aria potesse alzarsi in volo. Icaro, Leonardo, ... la storia di questo fascino è lunga come ben sappiamo. Scelsi di studiare gli aerei, per questo semplice motivo.

Gli studi erano (e sono) abbastanza complicati ma il loro motivo dominante è la leggerezza: si deve garantire la migliore prestazione possibile (materiali, sistemi, comandi, propulsore, ecc.) con il minor peso possibile.

Questo nella vita mi ha aiutato. Una buona metafora è la valigia. C'è chi ci mette dentro di tutto e chi invece impara a selezionare ciò che si deve considerare necessario o meno. In tal modo, per un processo di scelta forzata, ci si alleggerisce.

Si può quindi (si deve, direi) alleggerire la propria vita. Spesso beneficiano di questa leggerezza anche le persone che ci circondano, a cui possiamo offrirla come un dono conquistato con sacrificio e coraggio.

La stessa leggerezza la ritrovo nella poesia. Il processo di sottrazione ora mi è chiaro, limpido.
La parola deve essere piegata perfettamente in ritmo, senso e suono al disegno che l'autore vuol fare del mondo, di quell'istante, di quel sentire.

La prosa, il romanzo e il racconto, mi hanno sempre affascinato e credo di essere un buon lettore.
Li considero dei treni, alcuni veloci, altri meno, che percorrono in lungo e in largo il nostro mondo esteriore e interiore. Percorrono la storia. Oppure sono navi che solcano intere ere o il semplice inconscio del personaggio come navi da cargo.
Altre volte sono delle auto che si mettono sulle highway e ci portano in terre vicine ma sconosciute.

Ma la poesia, questo ho imparato da poco, è l'unica capace di "staccare l'ombra da terra".
Perchè è leggera. Deve esserlo, intrinsecamente.
Non sempre, non spesso, ma il verso quando è un verso riuscito è un aereo che arriva a fondo pista, rolla, alza il muso e sale nel cielo.

Di sera, spesso, mi sta capitando capita di leggere versi. Lo faccio da autodidatta e in modo disordinato, ma mi piace.
Mi piace affidarmi a parole leggere.


domenica 12 gennaio 2014

sul traghetto da capri

Non fu una giornata come tante: mi è rimasta impressa. Forse per la canzone.
Eravamo andati a Capri, come sempre facevamo, non appena il tempo lo permetteva: quell'anno era Maggio, e l'isola non era invasa dai turisti. Fu una giornata tranquilla, bella, serena.
Avevamo preso il traghetto la mattina e in un'ora e mezza circa eravamo arrivati.
Chi aveva il panino, chi aveva soldi per mangiare la pizza, chi aveva le sigarette.
Come sempre si univa ciò che si aveva per cercare di accontentare tutti.

Prendere il caffè in piazzetta era caro ma ancora potevamo permettercelo. Poi andammo al faro, uno dei posti più incantevoli al mondo, secondo me.

Ci accomodammo sugli scogli, in modo felicemente caotico e disordinato come può fare un gruppo di liceali tra 16 e 17 anni, e iniziò la giornata.
Mare, sole, tuffi, scherzi. Il cielo accoglieva la nostra gioventù specchiandola in un doppio blu.
La nostra dolcezza era la stessa di quell'aria fina, di quel sole caldo ma non opprimente.
Il blu che avevamo negli occhi era lo stesso, intenso di quell'acqua nella quale nuotavamo.
Non ci furono episodi particolari, ma tra di noi c'era la consapevolezza, c'erano quegli sguardi silenziosi di chi sa che sta vivendo un momento bello, e che eravamo dei fortunati.

Si fece subito pomeriggio e dovemmo abbandonare quel luogo incantato. Le sigarette e i soldi erano finiti e come sempre facevamo la colletta sul traghetto. Ma era pieno di ragazzi come noi, senza soldi e senza sigarette. Si sarebbe forse fumato a casa, sfilando la Muratti dal pacchetto di papà.

In quella moltitudine di ragazzi, tutti abbronzati o cotti dal sole, due emergevano per la loro bellezza.
Avevano l'aria di essere anche loro sereni e felici. Alcuni tra noi sentirono, me compreso, che stavano discutendo dell'ultimo album di Battisti, uscito poche settimane prima.
Qualcuno l'aveva già ascoltato, altri ne avevano fatto solo un ascolto superficiale.

Uno dei due disse all'altro: "Che dici, gliela facciamo sentire ?"
L'altro, sorrise: "Va bene, facciamogli questo regalo !

Tirarono fuori due chitarre e due voci indimenticabili.
La canzone era questa:


Buon ascolto

venerdì 10 gennaio 2014

umanità, libertà, giustizia (m. yourcenar)

"La mia pazienza dà i suoi frutti: soffro meno; la vita torna a sembrarmi quasi dolce. 

Non mi bisticcio più con i medici; i loro sciocchi rimedi m'hanno ucciso; ma la loro presunzione, la loro pedanteria ipocrita è opera nostra; mentirebbero meno se noi non avessimo paura di soffrire. Mi mancano le forze per gli attacchi di furore d'altri tempi: so bene, da fonte certa, che Platorio Nepote, che mi è stato molto caro, ha abusato della mia fiducia; ma non ho tentato di sbugiardarlo; non l'ho punito. L'avvenire del mondo non mi angustia più; non m'affatico più per calcolare angosciosamente la durata, più o meno lunga, della pace romana; m'affido agli dèi. Non già ch'io abbia acquisito una maggior fiducia nella loro giustizia, che non è la nostra, o una maggior fede nella saggezza umana; è vero il contrario.

 La vita è atroce; lo sappiamo. Ma proprio perché aspetto tanto poco dalla condizione umana, i periodi di felicità, i progressi, anche parziali, gli sforzi di ripresa e di continuità mi sembrano altrettanti prodigi che compensano quasi la massa immensa dei mali, degli insuccessi, dell'incuria e degli errori. Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l'ordine. La pace s'instaurerà di nuovo tra le guerre; le parole umanità, libertà, giustizia ritroveranno qua e là il senso che noi abbiamo tentato d'infondervi. Non tutti i nostri libri periranno; si restaureranno le nostre statue infrante; altre cupole, altri frontoni sorgeranno dai nostri frontoni, dalle nostre cupole; vi saranno uomini che penseranno, lavoreranno e sentiranno come noi: oso contare su questi continuatori che seguiranno, a intervalli irregolari, lungo i secoli, su questa immortalità intermittente. Se i barbari s'impadroniranno mai dell'impero del mondo, saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci. Cabria si preoccupa di vedere un giorno il pastoforo di Mitra o il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il Pontefice Massimo. Se per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani avrà cessato d'essere il capo d'una cerchia d'affiliati o d'una banda di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali dell'autorità. Erediterà i nostri palazzi, i nostri archivi; differirà da noi meno di quel che si potrebbe credere. 

Accetto con calma le vicessitudini di Roma eterna. Le medicine non mi soccorrono più; aumenta l'enfiagione delle mie gambe; e sonnecchio seduto più che disteso. Uno dei vantaggi della morte sarà d'esser disteso ancora, in un letto. Ormai, tocca a me consolare Antonino. Gli ricordo che da tempo, ormai, la morte mi appare la soluzione più elegante dei miei problemi; come sempre, i miei voti finiscono per realizzarsi, ma in modo più lento, più indiretto di quel che potessi mai credere. Mi rallegro che il male m'abbia lasciato la lucidità sino all'ultimo; di non aver dovuto subire la prova dell'estrema vecchiezza, di non esser destinato a conoscere quell'indurimento, quella rigidità, quell'inerzia, quella atroce assenza di desideri. Se i miei calcoli son giusti, mia madre è morta pressapoco all'età alla quale io son giunto; la mia vita è già stata d'una metà più lunga di quella di mio padre, morto a quarant'anni. Tutto è pronto: l'aquila incaricata di recare agli dèi l'anima dell'imperatore è tenuta in riserva per la cerimonia funebre; il mio mausoleo, sulla sommità del quale vengono piantati in questo momento i cipressi destinati a formare contro il cielo una piramide nera, sarà terminato pressappoco in tempo per deporvi le mie ceneri ancor tiepide. Ho pregato Antonino che in seguito vi faccia trasportare Sabina; ho trascurato di farle decretare onori divini alla sua morte, e in fin dei conti le son dovuti; non è male riparare a questa negligenza. E vorrei che i resti di Elio Cesare fossero collocati al mio fianco.

M'hanno portato a Baia; con questo caldo di luglio, il tragitto è stato penoso, ma in riva al mare respiro meglio. L'onda manda sulla riva il suo mormorio, fruscio di seta e carezza; godo ancora le lunghe sere rosate. Ma ormai non reggo più queste tavolette che per occupare le mie mani, che si muovono, mio malgrado. 

Ho mandato a chiamare Antonino; un corriere lanciato a tutta corsa è partito per Roma. Rimbombano gli zoccoli di Boristene, galoppa il Cavaliere Trace... Il piccolo gruppo degl'intimi si stringe al mio capezzale. Cabria mi fa pena. Le lacrime mal si addicono alle rughe dei vecchi. Il bel volto di Celere è, come sempre, singolarmente calmo; è intento a curarmi senza lasciare trapelar nulla che potrebbe contribuire all'ansia o alla stanchezza d'un malato. Ma Diotimo singhiozza, la testa affondata nei guanciali. Ho assicurato il suo avvenire; non ama l'Italia; potrà realizzare il suo sogno di far ritorno a Gadara e aprirvi con un amico una scuola d'eloquenza; con la mia morte, non ha nulla da perdere. E, tuttavia, l'esile spalla si agita convulsamente sotto le pieghe della tunica; sento sotto le dita queste lacrime deliziose. Fino all'ultimo istante, Adriano sarà stato amato d'amore umano.Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. 

Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più.

Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti."

mercoledì 1 gennaio 2014

diario delle feste (due telefonate e una foto)

25 Dicembre 2013



01 Gennaio 2014